Sembra Nordica, ma è Calabria hot: la cucina avanzata del territorio di Antonio Biafora al Ristorante Hyle

da | Ago 28, 2020 | Stampa

Il tempo si è fermato sulla Sila, irretito in un labirinto di conifere. Passato un vecchio viadotto, i tornanti si inerpicano nell’ombra smeraldina fino al valico dove pascola qualche sparuta podolica. Poi di nuovo su, fino a 1300 metri. Non ci si arriva per caso, al Biafora Resort. Ma ci si può arrivare per gola, da quando Antonio, classe 1985, ha intrapreso il suo corpo a corpo col territorio. È datata 10 gennaio 2020 l’apertura del ristorante Hyle, come il vecchio nome della Sila, come la materia non ancora formata dei filosofi. In fieri come il suo talento e il suo stile, come un territorio tutto da reinventare.

Da quassù l’immagine della Calabria appare quantomeno sfocata. Non solo mare, ma anche alta montagna; non solo peperoncino, liquirizia e cipolla di Tropea. Il paradosso è quello di atmosfere alpine a latitudini quasi tropicali, foriere di contrasti imprevedibili e cariche aromatiche da escursione termica. “Ed è quello che volevo fare quando ho iniziato: riscoprire l’endocucina di una regione dimenticata, altri prodotti, altre culture. La Sila era una piccola Cortina, prima che venisse sempre più abbandonata”.

Per Antonio si trattava anche di una responsabilità familiare. “Tutto è nato dalla trattoria aperta nei primi anni ‘70 dai miei nonni Antonio e Serafina. Davano da mangiare agli operai che stavano rimboscando la Sila. E vivevano nel ristorante, alla lettera: la mattina toglievano i letti e apparecchiavano. C’era un recinto per i conigli, gli operai ne sceglievano uno, lei lo uccideva e col sangue preparava gli spaghetti, mentre arrostiva il corpo, più qualche conserva e salume”.

Ma Antonio era anche idraulico e muratore, così pian piano sono arrivate le prime camere e quando gli è subentrato il figlio Giuseppe, a fine anni ‘90, i cantieri non si sono più fermati: ogni anno i Biafora procedono a un ampliamento o a una miglioria, prima la sala dei matrimoni, poi il giardino, il restyling delle camere e 4 anni fa, decisiva, la spa, con la piscina messa a disposizione di tutta la comunità. Non senza miracoli, in questo far west di Calabria, visto che qui non arrivano né il metano né le fogne, cui supplisce un depuratore proprio; mentre la caldaia a biomassa brucia gli scarti delle segherie locali per l’acqua calda, cui contribuiscono i pannelli solari.

Già laureato in Scienze turistiche, Antonio si è quindi iscritto ad Alma e ha frequentato diversi stage, al Vigneto di Roddi (“ristorante dove facevamo 70 coperti in 3, quindi dovevi imparare a sbrigartela”), da Bracali e con Frank Rizzuti, chiamato anche come consulente in struttura. “Il primo mi ha affascinato per la capacità di riunire tanti elementi sul piatto, il secondo per la pulizia, l’eleganza, il lavoro sul territorio. Cosicché alla fine è stato un lucano a farmi conoscere nel profondo la Calabria”. Mentre salta agli occhi l’evitamento intenzionale della cucina nordica, nonostante i punti tangenziali dell’habitat e del foraging, al fine di schivare l’effetto banalizzante della moda da parte di quello che resta un semi-autodidatta.

Oggi Hyle è una tana di 4 tavoli con la sala in cucina, come nelle case, il camino e il banco per gli aperitivi, spostati d’estate in giardino. Lo affianca il bistrot aperto al pubblico, con una proposta più easy di 3 pizze e 3 portate per comparto, in cambio di uno scontrino medio di 25 euro. “Ma prima di essere ristorazione, questo è un progetto volto a trattenere i calabresi in Calabria. Compro tutto quel che posso qui attorno: i vegetali e i volatili dalle Delizie di Marianna, i caprini e i frutti di bosco dalla Sorgente, la carne di podolica dalla famiglia Turano, le trote dai Conte, i formaggi dai Tursi, l’olio dai Fazari e dai Ceraudo. Poi c’è l’orto, che si estende su 600 metri quadrati, sopra e sotto. Lo seguo io ed è totalmente biologico: solo letame di capra, compost, utile per ridurre i rifiuti, acqua e sole. Siamo quasi autosufficienti, nonostante l’altitudine, che attraverso lo sbalzo termico e la scissione degli zuccheri regala dolcezza”.  Di nuovo il paradosso calabrese, di cui Biafora tesaurizza nel piatto il gioco netto dei contrasti fra orizzontali e verticali, comfort e affondi, mettendo in mostra una pregevole varietas e una grinta non comune.

I piatti

I menu degustazione sono due, da 7 e 11 portate, rispettivamente a 70 e 100 euro. Per accompagnarli la carta dei vini si è scissa in Calabria e resto del mondo, con tante piccole aziende del Cosentino, che eludono l’irresistibile cliché del Cirò.

Gli appetizer sono tanti: lasciano il segno la meringa al limone con melanzana al barbecue e gelato all’aglio; il carpaccio di cervo servito sull’osso con succo di mela fermentato e semi di zucca tostati (semi che sono destinati a ricorrere, quale riserva di energia del montanaro), quasi un depistaggio nelle sue sembianze scandinave; il bacio di dama alle nocciole con paté di fegato e cipolla marinata.

Ci sono piatti che non cercano la complicazione, ma la centratura del gusto: vedi la polpa di peperone con olive, basilico e zuppetta di peperone arrostito, da gustare facendo scarpetta con la focaccia. Dove a richiamare è il background gustativo.

Altri nettamente più sofisticati: vedi la tartare di lombo di agnello dei pascoli silani con pasta di arachidi alla base, carote marinate per la sferzata acida e brodo freddo delle ossa allo zenzero. Pregevole per pulizia e contrasti. Mentre il petto di piccione al tartufo con nocciola e cardamomo vira verso il classico.

Nel riso entra a gamba tesa l’amaro: mantecato al caprino, è spolverizzato di ginepro selvatico raccolto nel bosco e polvere di porcini silani al mulinello. “Un tempo provvedevo al foraging da solo, mi sono perfino avvelenato. Oggi ci pensa il mio raccoglitore di tartufi, che ogni settimana mi porta 15 o 20 cose diverse, dal nasturzio al cerfoglio, dalla carota selvatica all’artemisia”.

Sono poi ottimi i bottoni di lepre brasata, mantecati con burro e timo, serviti con borragine a rinfrescare e un estratto caldo di albicocca che innesca il contrasto acido sulla dolcezza. Una felice riedizione del binomio frutta/selvaggina in chiave contemporanea.

Il vegetale è protagonista nella grintosa zuppa di talli, o tenerumi di zucchina, tipicità povera della zona, arricchita di guanciale, stroncatura e salsa di sardella.

Centrati anche i secondi. La quaglia delle Delizie di Marianna cotta al barbecue viene servita con salsa alla cacciatora e un bouquet di verdure ai semi di coriandolo e salsa allo scalogno nero, sottoposto a blackening per 3 mesi in zona caldaia, sempre attorno ai 65 °C.

Poi la podolica locale, che Biafora predilige giovane e non troppo frollata, per la consistenza morbida senza note di salume. Viene spadellata, finita al barbecue, spennellata di senape rustica e accompagnata da rapa rossa marinata e salsa degli scarti, sotto una coltre di foglie sempre di rapa essiccate. Quasi fosse un’insalata sopra il sangue.

La pasticceria è curata dalla moglie di Antonio, Francesca Mazzei, una laurea specialistica in restauro e diversi corsi prima di mettere le mani in pasta. Ed è puro profumo, etereo a fine pasto, il dessert di cremoso al pistacchio salato, morbida panna cotta al rosmarino nel sac à poche, spugna di pistacchio disidratata e sorbetto di fiori di sambuco, raccolti e messi sotto sciroppo con l’erba cedrina.