Calabria: i piatti di Antonio Biafora, tra fughe in avanti e ricordi della nonna

da | Set 2, 2020 | Stampa

Se alcuni ristoranti hanno sale con cucina a vista, quella del ristorante Hyle a San Giovanni in Fiore (Cosenza) è una sala letteralmente “in” cucina (o la cucina è in sala), e fa parte della cucina come se forni e fornelli fossero un enorme “angolo cottura”. O meglio è l’evoluzione di quello che una volta era il tinello, oggi scomparso dalle case: elegante come la sala da pranzo, ma informale nel sentimento delle persone, perché direttamente collegato al cuore pulsante della vita domestica. Ecco, Antonio Biafora in qualche modo l’ha fatto rivivere (grazie anche a un formidabile impianto di areazione-aspirazione) nel suo ristorante gourmet del Resort di famiglia.

Classe 1985, gavetta nel locale di famiglia poi la scuola Alma di Colorno e una serie di esperienze che spaziano da Bracali in Toscana a Michel Bras nella sede giapponese – Biafora ha voluto che per i clienti il servizio ai tavoli fosse un tutt’uno con lo spettacolo del veder nascere i piatti. Spettacolo ma non spettacolarizzazione, perché c’è il garbo delle cose vere e sentite, non artefatte e ostentate.  

Hyle, che è l’antico nome con cui anticamente si chiamava la Sila, è un ristorante ma anche un progetto culturale perché vuol essere la storia commestibile di un luogo e della sua comunità. Nulla qui ha solo una funzione estetica. Ogni elemento racconta qualcosa della terra, della montagna e i suoi boschi, dei fiumi e i laghi, di un territorio per molti versi ancora vergine, ricco di materie prime e – come dice lo chef – “di energia”.

Quella stessa energia che lo ha spronato ad andare oltre, non adagiarsi sulla già fortunata attività di famiglia: l’oggi Biafora Resort ha quasi 45 anni di vita, nato come “ristoro” condotto da nonno Antonio, dove nonna Serafina sfamava gli operai della zona, poi rinomato rifugio per turisti che venivano a mangiare al fresco dei 1250 metri di quota tra un’escursione e l’altra, poi anche albergo e centro per feste e banchetti.
Le attività di banqueting per cerimonie continuano anche adesso, affiancando una Spa e un bistrot. E il fiore all’occhiello è proprio Hile.

“Dopo anni di ricerca, anche intima e introspettiva, ho capito che avevo bisogno di tracciare un nuovo, autentico e più che mai unico percorso – spiega Biafora – così è nato Hyle, termine con cui Aristotele, indica la materia e con cui i greci sin dalle prime visite sul nostro altopiano silano indicavano la mia terra. La Sila e suoi boschi millenari erano un posto ricco di legna, di materia appunto. Hyle, da cui Silva (selva dal latino) quindi Sila”.

Questa materia nei piatti è concreta e squisita: funghi e tartufi calabresi, patate e cardi, quaglie e trote, manzo podolico e capra rustica e quant’altro il territorio fornisce, inclusi gli aromi di anice nero, pigne e altre erbe spontanee.

Che mangiare qui sia un viaggio è chiaro già dall’ingresso, insospettabile perché prima si entra nella hall dell’hotel e poi avviene un piccolo passaggio d’iniziazione. Si attraversa una porta in noce intagliata a mano, si calpesta il prezioso pavimento in marmo silano secondo le indicazioni dell’architetto Francesca Arrighi e dall’ingegnere Giuseppe Pio Mazzei. Ad accogliere i commensali, il banco aperitivi in inverno e il giardino nella bella stagione.
Una serie di amuse-bouche dà il benvenuto e tara il palato sullo stile dello chef: sapori autentici, a volte in un certo senso anche rudi, racchiusi in bocconi di estrema eleganza. Ecco allora le fettine di cervo crudo servite sulle ossa, “condite” e appena ingentilite dalla croccantezza dei semi di zucca salati, i “baci di dama” di pasta frolla alle nocciole farciti con crema di fegato di maiale e cipolla rossa marinata, i “tacos” di rapa ripieni di baccalà mantecato.

A tavola si parte per un viaggio sulle orme dell’antico commercio di pece bruzia, materia prima dai mille usi, dall’ingegneria navale alla medicina, dalla conservazione  all’artigianato, che veniva estratta dai boscaioli dai tronchi del pino laricio. La pece percorreva l’antica via Chjùbica, una strada “dei due mari” perché congiungeva il versante ionico e quello tirrenico tagliando per l’interno della punta dello stivale, da Paola (Cs) a Cirò Marina (Kr). Era la principale via di collegamento per il commercio del ‘petrolio’ calabrese. E Chjùbica si chiama il menu degustazione che percorre i sapori di questa strada.

Partenza col “Pipi arrustutu”, il peperone arrosto, di cui nella cucina tradizionale si brucia la pelle, per poterla togliere meglio. Poi si fa a strisce e si condisce per essere gustato freddo. Qui diventa una vellutata, una sorta di gazpacho calabrese, in cui resta intatta la freschezza dell’ortaggio e il sentore affumicato che tanto bussa alla porta dei ricordi olfattivi. Ad arricchirlo olive e basilico. Lo accompagna la focaccia: vietato non fare la scarpetta. D’altro canto, qui pani e focacce sono frutto di un lungo studio su farine da cereali antichi e lievitazioni. A proposito, da spalmare non arriva solo il burro: la candela che brucia al centro della tavola è di lardo. Man mano che si squaglia la cera-non cera si raccoglie al fondo della bugia per essere raccolta e finire su fette fragranti dalla mollica morbida e crosta croccante.

Ecco poi subito l’opulenza delle carni: dai pascoli silani l’agnello – crudo, in tartare – con pasta di arachidi, senape e carote marinate, che sottolineano con le sfumature terragne l’ematica selvaticità della carne, con finale pulito del brodo freddo, sempre d’agnello, allo zenzero. Di scuola più classica – ma non troppo vista la cottura al sangue – e pregevole, il petto di piccione al tartufo con nocciola, valorizzato dal cardamomo che riporta a suggestioni mediorientali.  

Segue un’antologia di primi, riassunto di origini povere, piatti ricchi delle feste e abilità tecnica: una pasta secca fortemente identitaria che alcuni chef stanno salvando dall’oblio, una pasta fresca ripiena e un risotto. La prima è la Stroncatura, ruvida, di spiccata acidità, ricca di crusca, era ottenuta in passato dalla “scopatura” degli scarti sui pavimenti del pastificio. Oggi rivive in piatti di chef calabresi che ne perpetuano il ricordo. “Come avrebbe fatto mia nonna – dice lo chef – l’ho condita con i talli, ma lei di certo non approverebbe invece la sardella”

Un po’ di tradizione dunque, con i gambi della pianta delle zucchine e un po’ di licenza poetica, ma restando nella regione, visto che la sardella è uno dei prodotti simbolo. Il piatto è di raro equilibrio, la pasta nonostante imiti una zuppa, resta ben al dente e porta in bocca una bontà ancestrale, erbacea e sapida.
Si respira bosco e sottobosco con il riso, caprino, ginepro e polvere di porcini. Si toccano vette di richiamo rinascimentale con i bottoni di lepre, borragine ed estratto di albicocca.

Le carni sono nei secondi di terra co-protagoniste perché la cucina ha importanti attenzioni all’elemento verde e le verdure non fanno solo da contorno. Ecco che manzo e rapa trovano un filo conduttore attraverso la senape selvatica e la quaglia, o meglio le sue zampe grassocce, è valorizzata non solo da cottura millimetrica ma anche dalle erbe aromatiche e dall’intenso scalogno nero.

I dolci, firmati con la pastry chef Francesca Mazzei giocano tra il ghiotto e il viaggio colto. Di grande raffinatezza la spugna di pistacchio al rosmarino e fiori di sambuco. Più goloso e immediata la crostata al cioccolato, pop-corn al caramello e frutti rossi.

In tutto questo è doveroso citare la cantina, curata dal sommelier Stefano, in cui si concentrano in oltre 400 etichette la miglior Calabria enologica, con varietà di produttori e profondità di annate, e una selezione di Italia, Europa, mondo.
Due i menu degustazione, a 70 e 100 euro con possibilità di mangiare alla carta, spendendo più o meno lo stesso.